Pubblichiamo l’intervista rilasciata da p. Gianni Notari SJ, parroco del “SS. Crocifisso dei Miracoli”, al quotidiano LA SICILIA di Martedì 5 Settembre 2017.
«Non sono tanto i segni di inciviltà in sé a generare insicurezza e paura, ma il tempo che passa prima che si intervenga per ripararli. Il cestino incendiato, l’insegna divelta, il sottopasso sporco su cui non si interviene tempestivamente e che rimangono così per anni, possono creare un effetto “contagioso” propagando disordine, insicurezza, paura a macchia d’olio. Una spirale verso il basso».
Per padre Gianni Notari, parroco gesuita della chiesa Crocifisso dei Miracoli docente di Sociologia generale dello studio Teologico San Paolo il degrado civico è inevitabilmente “figlio” del degrado materiale. Quali segni di inciviltà vede a Catania?
«Li vedo nelle aree periferiche e anche in un’area di centro sotto “effetto maquillage” dove non ci sono interventi strutturali e dove l’azione viene compiuta disattentendo il controllo dell’opera realizzata. Per esempio, abbiamo adottato questa piazza di fronte alla scuola (piazza Horacio Majorana ndr) dove, sistematicamente, le persone rubano i fiori, rubano le piante, i bambini giocano sulle aiuole e gli abitanti ne hanno fatto un’area per far defecare i cani. Eppure, mi creda, noi ce la mettiamo
davvero tutta».
Viene prima la latitanza delle Istituzioni o quella dei cittadini che non fanno la loro parte?
«Entrambe, ma poiché i catanesi non sono abituati al rispetto delle regole e, di conseguenza, perpetuano dinamiche degenerative, a questo punto l’Istituzione dovrebbe intervenire. Ci vogliono più controlli. Alla Fiera, ci sono una miriade di venditori ambulanti abusivi. L’Istituzione interviene, una volta. Io, venditore abusivo, so che non tu, Istituzione, non interverrai una seconda volta, così mi trovo nelle condizioni di agire tranquillamente, grazie ai tempi di “latitanza”, del controllo istituzionale. Faccio un furto? So che, forse, starò in carcere qualche giorno. Ritornando libero, il mio obiettivo sarà quello di agire in modo di non essere beccato, tanto non succede nulla».
Quest’ultimo episodio è un ribellarsi all’autorità o è solo un puro esercizio di violenza quotidiana?
«L’autorità oggi è delegittimata, non viene riconosciuto il suo valore nel contesto societario».
Perché ha abdicato anche lei?
«Sì, questo povero vigile è il paradigma dell’agire corretto. Stava esigendo il rispetto della regola ed è encomiabile l’azione di quest’uomo che si è trovato davanti chi non ha mai rispettato le regole e soprattutto chi non è mai stato rimproverato per il mancato rispetto delle regole. Voglio dire che se tu non crei un clima di educazione alla legalità, al bene comune, è chiaro che il delinquente di turno si sente autorizzato ad intervenire e a dire “tu non vali niente”».
Ma come si fa a creare un clima di legalità?
«Recentemente sono venuti a trovarmi un gruppo di giovani legati a “Libera” e mi hanno proposto la sperimentazione di una “street community”, cioè un’ azione, come cittadini, per creare circuiti di bellezza, di fiducia e di condivisione. La soluzione al degrado è innanzitutto nell’attenzione dell’autorità che costantemente deve ribadire le regole, ma nello stesso tempo, nell’attivazione di circuiti virtuosi nei quali i cittadini, camminando insieme, percepiscano l’importanza del bene comune».
Perché in questa città non ci indigniamo più?
«A Catania alberga un senso di sfiducia, tutto viene colto in maniera strumentale. I cittadini sanno che l’amministratore si rivolge a loro non perché ha a cuore il bene comune, ma perché sta ragionando in termini di riacquisizione del consenso. La città è in crisi perché serpeggia questa sfiducia e questa costruzione di rapporto cittadini-amministratori fortemente strumentale».
Ha ragione chi pensa che non ci siano più speranze?
«Il problema è che i cittadini si sentono fuori gioco, capiscono che nessuno si prende cura di loro. Avevamo chiesto all’Amministrazione un po’ d’acqua in più per curare le piantine della piazza ci hanno risposto “Sì, faremo, interverremo”, ma poi non è successo niente. Così come un minimo di controllo, magari con una telecamera sulla piazzetta, o un vigile che dica ai padroni dei cani come comportarsi o ai bambini che non si gioca calpestando le aiuole».
Piccole cose, cose “normali”…
«Ma bisogna ridare a questa città delle coordinate di normalità per favorire una crescita di fiducia dei cittadini che hanno bisogno di essere sostenuti. Il costume che si sta ingenerando è quello di lottare per avere il massimo, ma con le “proprie” regole. Io passo in controsenso perché questa è la “mia” regola e faccio quello che voglio. Sfiducia, individualismo e soprattutto degrado culturale delle periferie urbane, si possono arginare con una maggiore presenza delle Istituzioni e con l’attivazione di piccoli circuiti di comunità. Quello che manca a Catania è soprattutto una mentalità di bene comune».
Ma secondo lei c’è questa consapevolezza nelle Istituzioni e nei cittadini?
«Esiste, anche nei quartieri popolari e nelle periferie urbane. C’è una parte sana che vorrebbe essere aiutata ad esprimere il meglio di sé, a valorizzare quei circuiti di attenzione al bene comune. Il punto è che questi soggetti si sentono lasciati soli».
Carmen Greco